Un lettore mi ha scritto chiedendomi di portare un esempio di poesia elegiaca, e magari di commentarla. Eccone un esempio tipico: poesia di Roberto Carifi (1948-2018)
Roberto Carifi (1948-2018) Grazie per la parola Grazie per la parola che ancora accendi nel mio cuore, per quel raggio che dal bene hai ricevuto in dono e che nel mio abbandono lasci che nasca come fosse grano in un deserto, per quella tua bellezza, per l’orma divina del tuo sguardo, per quella tua dolcezza che vorrei baciare come si bacia l’innocenza, inginocchiato davanti alla tua anima quando una lieve ombra la lascia affiorare sulla carne, per quello che chiami il tuo peccato, per il tremore che turba la tua voce quando mi dici l’indicibile e lasci l’impronta dell’amore in questo cuore arato. Ecco un’altra poesia tutta vergata e vissuta lungo le linee elegiache delle tonalità e della postura del poeta iniziato ai misteri della Musa. Innanzitutto, la positura del poeta che ringrazia la Musa: «Grazie per la parola», dando per scontato ciò che scontato non è, cioè che la «parola» sia realmente avvenuta; e poi il tono da salmodia, di preghiera, con quel tanto di sottofondo di autocompiacimento dell’autore per essere stato visitato dalla Musa. Si tratta di una narrazione della visita che la Musa ha concesso al «poeta» iniziato ai suoi misteri: per la «parola» ricevuta per grazia et amore dei, per il candore dell’anima del «poeta». Il registro fonosimbolico è quello del salterio, della preghiera più vicina alla liturgia religiosa che alla forma-poesia del novecento, ma tant’è. Quella di Carifi è una poesia che sale sul podio degli iniziati e che si concede solo a loro. Infine, tutto quel parlare a vanvera e in astratto tanto per colpire il lettore intonso con parole altolocate e misteriosofiche: «bellezza», «anima», «peccato», «indicibile», «dolcezza», «innocenza», «abbandono», «baciare», «bene», «dono», «amore»… Tutto un repertorio di stereotipi del poeta buono e bianco che ha avuto in «dono», lui solo, la «parola» dalla Musa. Una teosofia raccapricciante. È chiaro che qui siamo davanti ad una vera e propria “Annunciazione” della Musa che si presenta dinanzi all’ego spropositato e sproporzionato del «poeta» , il quale, visitato dalla Musa deborda dagli argini dell’io «inginocchiato davanti alla tua anima» e invade il mondo con il proprio «cuore arato». Insomma, il solito dolorificio permanente dell’elegia che ci confeziona un quadridimensionalismo teosofico e misteriosofico che sconfina con il pauperismo e il banalismo, con un populismo travestito di bianco dell’anima nobile e nubile che attende il mistero della Annunciazione. Uno spettacolo davvero indecente. (Giorgio Linguaglossa) per altri suggerimenti tematici, consultate lombradelleparole.wordpress.com
vivissimo? a me pare catatonico. Giorgio Linguaglossa coglie bene dove stia l'inghippo. Forse è perfino sbagliato usare il termine "elegia", perché definisce un genere letterario che non c'è più, perfino le bellissime elegie di Rilke sono quasi una parodia dell'elegia, e sta lì la loro forza. Ma Rilke ha alle spalle la tradizione tedesca, che già nel settecento e primi ottocento aveva scavalcato i generi. Goethe e Hölderlin, per intenderci. In che cosa era consistito questo scavalcamento? nell'assunzione "filosofica" del soggetto. Schiller e Leopardi lo avevano visto bene. Da questa impostazione è bandito il lamento dell'io, bandita soprattutto la sacralità della poesia. Non ci sono verità da rivelare, ma solo insufficienze attuali da comunicare. Nella tarda, e sublime, Marienbader Elegie solo apparentemente Goethe sembra partire da un dato biografico, il rifiuto di una diciassettenne a unirsi con un settantenne. ma quel rifiuto non è letto dal poeta come una sconfitta della propria pretesa di amore. La legge come una sconfitta della Ragione, perché manca il linguaggio a definirla. Fehllt am Begriff. Manca il concetto. Non è il rifiuto di una ragazzina a lasciarsi scopare da un vecchio, ma il rifiuto della vita a permanere, a essere vita e ad avere il linguaggio per dirla. Il problema dell'Italia è che non abbiamo avuto né un Goethe né uno Hölderlin: gli dei sono morti, e dunque come scrivere poesia in un mondo senza dei? Ma non abbiamo avuto nemmeno un Baudelaire e un Rimbaud. Abbiamo avuto Pascoli. E Croce che ha abolito i generi, ma di fatto riunendo tutto ciò che per lui è poesia all'io lirico. Coglieva bene una tendenza, che dura tuttora: la sparizione dei generi, e con essi della molteplicità dei registri, e il bisogno narcisistico di dannunzianeggiare dicendo io io io. Perfino il "grande" Montale è nella sostanza un dannunziano. Guanda ha aperto una nuova collana di poesia. Sono andato alla presentazione. Non si esce dal seminato.
Giorgio, magari è un mio errore. Carifi, del 1948, di Pistoia, è vivissimo e, in Ablativo assoluto (2021), continua a dispensare bigongiariate:
Inno che lacera i cortili
notte, notte, notte
certe volte le ho trascorse
nel gelo, in preghiera abissale
nel letamaio d’angoscia.
C'è un secondo Carifi? I lirico/elegiaci si moltiplicano ad infinitum.