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"Pasolini con Le ceneri di Gramsci pensava ad un Grande Progetto per la poesia italiana, volta ad indirizzare la poesia italiana sostanzialmente ancora petrarchesche verso il traguardo di una riforma linguistica radicale che non rompesse in modo drastico con la tradizione lirica". Lezione indispensabile per chi, ancora oggi, voglia scrivere poesia. L'altro polo è Zanzotto. Diverso da Pasolini ma sostanzialmente affine, anche se superficialmente non appare. E quanto al dialetto - io preferirei dire "parlata locale", è una pratica in cui defluiscono pulsioni poetiche altrimenti indicibili, anche scherzose o iraconde. L'ho praticata anch'io, nelle parlate che conosco, il romanesco, il veneziano, il napoletano. Per esempio in un monologo che scrissi ormai tanti anni fa e che recitai io stesso alla Biennale Teatro di Venezia, allora diretta da Maurizio Scaparro, inserii una "canzonetta" in veneziano. È l'ultima notte che Petrarca (poeta da non confondere con i petrarchisti) trascorre a Venezia e sotto le sue finestre un ragazzo canta questa canzone: "Me brusa el cor, / me brusa tanto, / che s'ciopa el pianto, / e no me stua l'amor". La tradizione non è copia o rimasticatura del già fatto, ma continua reinvenzione delle soluzioni che il passato ha dato ai problemi. Insomma, ciò che a noi sembra oggi consolidato, antico, era al suo tempo nuovo, invenzione. Questa è la tradizione: riproporre quell'invenzione, non l'inventato, il già inventato. Pasolini lo aveva capito come pochi. Le sue "terzine dantesche" sono veramente dantesche proprio perché non ripetono le terzine di Dante.

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