Nel suo "Éloge du maquillage" (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio
La «defigurazione» è la procedura poetica tipica adottata dalla novissima poesia. Pensare lo «spazio poetico» oggi significa applicare ai testi la de-figurazione e la dis-locazione in quanto...
Sulla de-figurazione e la dis-locazione
«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»
(Charles Baudelaire)
Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo artifex, ultima emanazione dell’ Homo Super Faber, o Super Sapiens.
La «defigurazione» è la procedura poetica tipica adottata dalla «nuova poesia». Pensare lo «spazio poetico» oggi significa applicare ai testi la de-figurazione e la dis-locazione in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia globale e glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e logotecnici, sono caratterizzati dalla de-figurazione e dal disallineamento metrico, vale a dire dalla distassia e dalla dismetria.
È il linguaggio pubblicitario
che impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estetica non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.
La de-figurazione è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, introducendo nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, liberate dalla cogenza del referente, non appropriate quindi non corrispondenti al referente; ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal referente che corrisponde alla parola che non gli corrisponde; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della de-localizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro dalla poesia di accademia dove l’espressione che mira al referente viene ad essere sostituita da enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva, appunto, referendaria. Così è avvenuto che il linguaggio referendario del poetico e del narrativo ha sostituito il referente.
La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite,
globale e glocale, in cui agiscono vettori anche contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo, in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione; ci si muove nel quadro di smottamenti linguistici globali e glocali, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei, oggi una poesia europea che non abbia qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni epigoniche. Pensare ancora con le categorie della poesia del novecento: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi. La globalizzazione e la glocalizzazione sono processi macro storici che non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.
È impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico,
oggi è viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento: lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre: occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione dello spazio poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di orientare le categorie del pensiero poetico.
Quello che oggi occorre fare con urgenza è riprendere a riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, de-territorializzare il linguaggo poetico della tradizione del novecento e riterritorializzare il nuovo linguaggio poetico per una «nuova poesia» di là da venire, anche perché dopo la riscrittura post-moderna operata da Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna la resa dei conti stilistica del «poetico» è, dopo il novecento, rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione, che non potrà essere solo stilistica e vocabologica ma dovrà andare molto più a fondo, dovrà investire nientemeno l’ontologia del linguaggio poetico.
Il pensiero logico-sequenziale nella nuova poesia kitchen è andato a farsi friggere.
Nella «nuova poesia» il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, è andato a farsi friggere, sembra essere stato in buona parte sostituito da un pensiero nello stesso tempo teppistico e multi-tasking. Se leggessimo con concentrazione una poesia di Francesco Paolo Intini, di Raffaele Ciccarone o di Marie Laure Colasson ci metteremmo a ridere, ci accorgeremmo che ci troviamo davanti ad una testualità multi-tasking, triggered, tigrata, non ammaestrata, una poesia pop-corn, una poesia pop-fast-food. Intini, Ciccarone e la Colasson sono i primi primati, in Italia e, che io sappia anche in Europa, che facciano una pop-corn-poetry, che non sai se sia più ridanciana o auto derisoria o auto compromissoria, fatto sta che si tratta di una testualità che si deve leggere di sguincio, con l’occhio distratto, facendo zapping con lo sguardo. Come è possibile sostenere che il soggetto fondatore è indicibile (e quindi la parola è impronunciabile) e fare di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico? Non si continua in tal modo a pensare a partire dagli stessi termini, ma invertiti? «La traccia dell’origine», in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e diventa effetto; lo spostamento qui è produzione. La non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un logos dell’originario è d’altronde una vecchia idea del proposizionalismo della poesia elegiaca che è presente da Pascoli a Sanguineti post-Laborintus (1956) e arriva fino ai giorni nostri, poiché la ratio cognoscendi non può porre in primo luogo ciò che è realmente primo; di qui il ritorno all’origine, innato o a priori della poesia elegiaca, che non possiamo enucleare se non mediante uno scarto e un’eterna inadeguazione. È questo lo scotto che va pagato, lo scotto di una eterna «inadeguazione» del discorso poetico ad approssimarsi. Ma approssimarsi a che cosa?