Due parole sul Tagebuch (diario, poetico e/o narrativo), Scrivere un diario poetico sull’io è, letteralmente, storiografare se stessi mentre si procede nella scrittura, Marie Laure Colasson, absence
È anche vero che c’è una istanza (stanza) dell’io che chiede di entrare nel mondo del senso e del significato, che spinge per entrarvi...
(Marie Laure Colasson, absence, 70x70, acrilico, 2024)
(Marie Laure Colasson, absence, 30x30, acrilico, 2024)
Il genere prescelto è il Tagebuch, il diario (narrativo e poetico), il luogo nel quale vengono appuntati i pensieri del giorno, ciò che pone all’“Io” il compito etico di rispondere all’ordine del giorno mediante dei pensieri che rispondono ad una situazione attuale di incertezza e di pericolo.
Se sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra, scrivere un diario poetico sull’io è non sapere ciò di cui si scrive, un tentativo di inoltrarsi tra le ombre dei significati che sono essi stessi nell’ombra e quindi che non possono essere condotti alla piena luce dell’evidenza. Il diario è propriamente questo, un tentativo di gesticolare nell’ombra dei significati ossificati, un tentativo di compiere dei gesti che aprano degli spazi nei significati in ombra.
Scrivere un diario poetico sull’io è, letteralmente, storiografare se stessi mentre si procede nella scrittura. Scrivere è osservare. Si tratta perciò di mettere a tema il problema della collocazione ontologica dell’osservatore il quale sembra essere al di qua della pagina mentre invece è sempre al di là, nel pieno della luce dei significati già dati, ovvero, oscurati. Ed è questa l’aporia del diario poetico, la sua finzione è la sua funzione, il voler dare ad intendere che chi scrive è l’osservatore che osserva la scena, mentre invece è un intruso, un ospite nel teatro dell’esistenza, un ospite che fa parte dell’esistenza che scorre ma che non può vedere dall’esterno come il teatro vorrebbe dare ad intendere. E l’io si scopre privo di una platea, deiettato nel linguaggio.
Il pensiero poetante si fa costellazione di parole, indagine, pensiero (poetante) che s’indirizza a ciò che si manifesta, a ciò che si dà come oggetto di conoscenza, ovvero ai significati, ma che nello stesso tempo ne rievoca anche la provenienza; ma i significati si danno in presenza a partire da un’assenza, da uno sfondo che va a fondo. Rievocare la provenienza non significa rendere presente ciò che è assente ma anche revocarla, portare a manifestazione ciò che, come tale, non si manifesta, ma che esplicita l’attuare un mutamento dello sguardo, una diplopia: vedere ciò che si mostra come ciò che è in presenza, ma guardarlo, in un certo senso, anche dal lato dell’assenza, vederne il limite interno.
Che cosa dunque rievoca (e revoca) il pensiero poetante? Esso «rammemora» l’Evento, e così lo revoca, lo falsifica. Rievoca quella zona d’ombra che è l’accadere stesso della luce; l’andare a fondo in quanto far emergere qualcosa non al fine di gettare luce sull’ombra e cancellarla in quanto ombra, ma al fine di «sospendere» la cogenza dei significati.
Si tratta di mostrare che quei significati che vengono alla presenza non sono verità assolute nel senso di ab-solutum (sciolto, libero dal contesto), ma appartengono sempre a una cornice, figure che appaiono in primo piano a partire da una condizione che, subito, retrocede sullo sfondo. Rammemorando questa condizione, i significati vengono «storicizzati», mostrati nel loro limite, ossia nella loro contingenza storicamente determinata e nella loro dipendenza da un orizzonte.
Heidegger ha ragione quando afferma che il corpo umano è affatto diverso da tutte le altre cose del mondo perché è un corpo, cioè il corpo di un soggetto che dice di sé di essere un “Io”, e di conseguenza di avere un corpo.
Homo sapiens è questa separatezza. E come l’umano è separato dal suo stesso corpo così è separato dalle cose e dal mondo. L’ecologia non risolve questa frattura interna all’umanità dell’umano, può al più mitigarne e dilazionarne gli effetti e gli affetti. L’ecologia è una oncologia. Gli effetti dell’io sono i suoi affetti. Heidegger parte da questa constatazione antropologica, parte dagli affetti (la cura del Sé). Si tratta ora di capire fino a che punto, questo strano vivente che è l’EsserCi, che nega il proprio stesso essere corpo, che è questa stessa negazione, può spingersi verso il mondo delle cose, fra cui c’è anche il ‘proprio’ stesso corpo che gli è estraneo quanto una galassia distante miliardi di anni luce.
La poesia del novecento, da Pessoa ai giorni nostri, scopre l’“Io”, scopre una galassia dentro l’“Io”, questa complessità inestricabile fatta di tempo, di spazio, di micro eventi; caratteristica della poesia dell’io è il pensiero riflettente che pensa intimamente il reale, e il diario è la cronografia di questo singolare pensiero riflettente.
È anche vero che c’è una istanza (stanza) dell’io che chiede di entrare nel mondo del senso e del significato, che spinge per entrarvi. L’esistenza non si nutre solo di oggetti, non è solo fatta della sostanza del godimento, del carattere acefalo della pulsione, ma esige di entrare nell’ordine del senso e del significato. Il genere del diario poetico è questa procedura di accensione del senso e del significato; senza questo accesso, l’esistenza si disumanizza, resta vita biologica, ricade nell’ombra
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