da “Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione” (2007) di Alfonso Berardinelli alla "Antologia Poeti italiani del secondo Novecento" (1996) curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, ad oggi
Ed ecco fiorire una miriade di auto antologie regionali, provinciali, condominiali, redazionali e amicali prive di alcuna giustificazione estetica e di alcun supporto critico
(Alfonso Berardinelli, foto di DinoIgnani)
A proposito di Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, di Alfonso Berardinelli (Quodlibet, pp. 424, 2007), vorrei citare direttamente l’autore al paragrafo “La poesia italiana alla fine del Novecento”. Berardinelli, riferendosi al panorama della poesia italiana degli ultimi trenta anni del novecento, scrive:
«Care lettrici e cari lettori,
forse non ve ne siete accorti, ma la vostra vita si è svolta finora all’interno di un’epoca chiamata postmoderna.
La parola la conoscete. Circola da parecchi anni. Arriva quasi sempre all’improvviso, nel corso di un articolo, in mezzo a una conversazione, durante un dibattito alla radio o alla tv. Qualcosa, in definitiva, è postmoderno, qualcuno è quello che è perché è postmoderno, un fenomeno strano e inspiegabile si spiega in quanto postmoderno. Con questo termine ondeggiante, suggestivo, decisivo, che sembra alludere a qualcosa di preciso e di tecnico e insieme sfuma nell’epocale, si riesce a dire tutto il male e tutto il bene. Postmoderno è un’accusa. Postmoderno è una lode. Se è postmoderno vuol dire che è degenerativo, peggiore, peggiorato, poco serio, un po’ scadente, ripetuto male, irresponsabile, frivolo. Se è postmoderno, però, sarà anche più attuale, più moderno ancora, rivolto al futuro, divertente e leggero, colto senza essere noioso, sofisticato senza essere elitario, complesso senza essere oscuro.
Il postmoderno potrebbe anche essere definito un “come finisce il Novecento”. Perciò siamo qui per annunciare che il postmoderno è finito, finisce ora, in questo momento, nel momento stesso in cui stiamo parlando della sua fine.
Care lettrici e cari lettori, siamo entrati in una nuova era. Ne avete già sentito parlare. Io propongo di chiamarla l’Età della mutazione».
«Da un lato si è prodotta una crescente marginalità del genere letterario poesia, o più semplicemente una sua vera e propria “decadenza”, un suo svuotamento e impoverimento culturale: nessuno dei poeti più giovani ha acquistato un qualche rilievo sul piano intellettuale e critico. Dall’altro, questa situazione di marginalità ha provocato un rinchiudersi degli autori di poesia in un loro ghetto, in una specie di “riserva” o micro–comunità in cui la discussione e l’approfondimento intellettuale e critico non sembrano più costituire un interesse vitale e primario […]. Il fatto che per almeno vent’anni nessun poeta sia stato più un intellettuale, un critico, un saggista impegnato a riflettere sul senso di quello che faceva e sul contesto in cui lo faceva, ha contribuito a quella decadenza o indebolimento del genere letterario poesia a cui si è accennato. L’attività critica non è certo sparita, tutt’altro; ma ha assunto un carattere prevalentemente amministrativo e pubblicitario, cioè non propriamente critico. È il caso delle schede d’accompagnamento editoriale (in forma di quarta di copertina o anche di recensione) quasi sempre così impeccabilmente eseguite, così suggestive, eppure così autoreferenziali, per cui si ha l’impressione che il linguaggio critico descriva oggetti testuali più immaginari e ipotetici che realmente esistenti. C’è appunto la descrizione, manca però il giudizio: il che, come si può capire, compromette anche il valore della descrizione, perché più o meno le stesse cose potrebbero essere dette (e di fatto vengono dette) tanto di un libro eccellente che di uno illeggibile, e tutto, così, sfuma nell’irreale.
Essendo diventate, come si è detto, piuttosto sporadiche, o poco attendibili e poco impegnate, o sostanzialmente ed evidentemente promozionali (editoriali, amicali) le attività della critica, anche il maggiore o minore successo di questo o di quell’autore ha conservato a lungo qualcosa di casuale e di arbitrario… Nel periodo di tempo che stiamo considerando (dal 1975 in poi n.d.r.), come pure nel decennio precedente, molto spesso le capacità autopromozionali e la semplice tenacia con cui un autore di versi si è proposto agli editori e al pubblico hanno finito per farlo sembrare importante, imprescindibile, significativo. La funzione critica è stata in gran parte surrogata dalle scelte editoriali. E gli uffici stampa sono risultati più influenti di qualunque critico indipendente: sia perché la figura tradizionale o ideale del “critico indipendente” ha cominciato essa stessa a declinare, sia perché la poesia come genere letterario è diventata editorialmente e culturalmente marginale, i migliori critici se ne sono occupati sempre meno, un po’ con la mano sinistra… Il fatto è che… sulle due generazioni di nuovi poeti esordienti dopo il ’75 hanno presto cominciato a incombere con la loro qualità letteraria e con la loro autorità storica una serie di poeti più anziani, che avevano avuto la fortuna di affacciarsi sulla scena letteraria in situazioni meno confuse e affollate.1 Il critico romano fa i nomi dei fortunati: Dario Bellezza (che aveva esordito nel 1971 con Invettive e licenze); «nel 1974 pubblica il suo primo libro Patrizia Cavalli, nel 1976 esordiscono Maurizio Cucchi e Milo De Angelis», e poi Giuseppe Conte, Valentino Zeichen (all’epoca quarantenni), con i più anziani Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni e Luciano Erba, e con i più giovani come Valerio Magrelli.»
(Giorgio Linguaglossa)
Il critico romano è estremamente equilibrato nella sua diagnosi e nelle sue osservazioni di contorno. A proposito di Bellezza, Cucchi, Conte, Zeichen e Magrelli, Berardinelli parla di «uomini di fede» e «poeti di professione», che «si sono ansiosamente applicati alla costruzione della propria identità e immagine pubblica»; occorreva fare indirettamente l’«apologia» della propria poesia e fare della poesia un «mestiere» dato che gli autori si trovavano di fronte, ormai, un pubblico non più realmente competente… un pubblico “di massa” […]. Essendo venuta meno la vigilanza critica… il mito della Poesia si è improvvisamente ricostituito. Tramontata la figura del poeta–ideologo, è stata la volta del poeta di fede, ingenuo o falso–ingenuo.
Giunto a questo punto, il critico romano, forse preso da un comprensibile senso di scoramento e di sfiducia, non estende la sua analisi ai «nuovi autori» che hanno avuto la ventura di arrivare alla poesia dopo il 1975, sotto l’autotutela della generazione che si è autopromossa a «maggiore»; Berardinelli non si avventura in prognosi, si limita a citare una serie di autori a suo parere significativi. A suo giudizio, la fine della «avanguardia» e dell’impegno ha determinato l’esaurimento di quella generazione di poeti–critici, di intellettuali in senso pieno e complesso del termine, in grado di affiancare con la capacità critica l’attività poetica, e ciò ha indubbiamente favorito il ritorno ad una idea di poesia salvifica e assolutoria, che segna un passo indietro nell’elaborazione di una poesia emancipata dalla soggezione alla linea «lirica» e piccolo–borghese.
A parere di chi scrive, le cause della crisi della poesia sono più profonde e complesse. Le ragioni della dimidiata rappresentatività del comparto poesia non possono essere scollegate dalla svalutazione del mondo della cultura e della stessa funzione intellettuale della cultura nel nuovo mondo mediatico. Con tutta probabilità, il settore poesia, quale anello più debole del comparto cultura, è quello che più violentemente e vistosamente ha subito la recessione nel silenzio mediatico ed editoriale.
Si è trattato di un fenomeno insieme sociologico e intellettuale. Oltre che epistemologico.
È bene fare una precisazione e un distinguo. Quella che si profila all’orizzonte degli anni ottanta e novanta della fine del novecento, è una vera e propria guerra di posizione tra i poeti della generazione del ’75, per intendersi, quelli del «piccolo canone», come ironicamente li definisce Berardinelli, e i «poeti nuovi» che hanno pubblicato dopo il 1975, che hanno dovuto subire la marginalizzazione e il silenzio. Si è verificato così un fenomeno sorprendente: da una parte i poeti del «piccolo canone» che avevano l’interesse editoriale e pubblicitario ad affermarsi e consolidare le proprie posizioni di egemonia, dall’altra i «poeti nuovi», la generazione dei cinquantenni, passata sotto silenzio, emarginata dai circuiti editoriali a maggior «diffusione nazionale» e indotta in una specie di limbo esistenziale–culturale.
La riprova di quanto andiamo dicendo la troviamo nella antologia Poeti italiani del secondo Novecento (1996) curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi per i «Meridiani» Mondadori che «consacra e fissa artificialmente una situazione nel suo insieme assai confusa», come annota Berardinelli, il quale così prosegue:
«L’antologia finge in sostanza che i valori stabiliti editorialmente negli ultimi due–tre decenni del Novecento siano davvero “stabili”. Come se niente di nuovo fosse avvenuto nella situazione letteraria».
Il criterio scelto dai due curatori secondo cui vengono considerati soltanto gli autori che hanno pubblicato prima del 1995 presso editori «a diffusione nazionale», oltre ad essere discutibile e scientificamente inattendibile, sancisce lo status quo decretato dagli strateghi del «piccolo canone», mediante un piccolo trucco: stabilisce le regole del gioco mentre dura la partita, escludendo dalla partita quella generazione che nei due decenni precedenti aveva imboccato la strada del rinnovamento della poesia.
È bene dire subito che la storia della poesia non si fa per omissioni e per censure, silenziose e implicite, né per criteri–spartiacque, addirittura dichiarati. È tutta l’impostazione concettuale e l’apparato critico della antologia che vengono ad essere inficiate dalla inattendibilità scientifica dell’idea–guida sulla quale essa è stata costruita. E non bastano l’esattezza e l’abilità redazionale delle schede critiche dei singoli autori inclusi nell’antologia a riscattare il lavoro critico svolto dai curatori nel loro complesso. È la scelta del criterio–base a non essere credibile. Se poi consideriamo che il novanta per cento degli autori inclusi sono stati pubblicati dallo stesso editore che ha edito l’antologia, avremo chiaro il quadro indiziario che ci induce a ritenere l’antologia come un lavoro redazionale e niente di più. Una sorta di «critica della carta di identità», come ironicamente annotavo in una recensione dell’epoca. Da qui quella certa monotonia e uniformità della scrittura critica delle schede critiche e dell’introduzione, quella piattezza che fa di Fortini, Pasolini, Sereni e Rosselli autori non dissimili, per altitudine e complessità, da autori come Vivian Lamarque, Mario Santagostini, Franco Marcoaldi etcetera; quella carta geografica unidimensionale che tende ad appiattire tutto il panorama del secondo Novecento come un susseguirsi di figurine su un album di calciatori. Ma è appunto la visione unidimensionale e appiattita verso il basso dell’ottica del «piccolo canone» che fa fare di tutto il variegato e articolato paesaggio del secondo Novecento, una pianta geografica dove sono state cancellate le indicazione degli altipiani e dei monti per uniformare il disegno alla situazione di radura connaturata al «piccolo canone».
In questa situazione di confusione e di assenza di regole euristiche o, più precisamente, in una situazione in cui la regola–spartiacque è stata stabilita a monte, una volta per tutte da chi gestisce l’apparato editoriale e gli uffici stampa degli editori maggiori, non meraviglia la comparsa, verso la fine del Novecento, di una miriade di auto antologie regionali, provinciali, condominiali, redazionali e amicali, prive di alcuna giustificazione estetica e di supporto critico credibile, in cui ciascun poetante ha tentato una storicizzazione della propria produzione e delle produzioni «vicine». Come non meraviglia l’enorme quantità di carta stampata con la parola «poesia» stampigliata in copertina; ciascuno ha diritto di vedersi stampato un proprio libro di «poesia», non vedo perché dovremmo vietare a delle persone il piacere, innocuo e pur sempre umano, di vedersi stampato, a pagamento, un proprio libro di «poesia». Non è affatto questo il male della poesia contemporanea, non sono i centomila dilettanti che scrivono «poesia» il male della poesia, e non sarebbe neanche difficile riconoscere un buon libro di poesia da un mare di carta stampata, basta un’occhiata alla prima «poesia» o aprire a caso il libro e leggere qua e là. La poesia di qualità la si riconosce in un attimo.
Ma la verità è un’altra: non interessa a nessuno valorizzare i libri di poesia, non interessa al presunto critico o recensore, il quale riceve già dal capo redazione dei giornali l’indicazione dei libri da segnalare, e non interessa all’apparato degli autori già arrivati al traguardo. È una fatica sprecata, non porta rappresentatività al recensore e magari gli aliena anche qualche amicizia influente. E allora perché sprecare tempo e pazienza per segnalare i libri più importanti? perché sprecare tempo e pazienza per stroncare libri indecenti?
Certo, un panorama confuso e deprimente. Ma il tardo Novecento non è stato soltanto quella tabula rasa che qualcuno vorrebbe far credere, ci sono state riviste importanti come “Hebenon” diretta da Roberto Bertoldo, “Poiesis” diretta da chi scrive che hanno preso posizioni critiche importanti, controcorrente e che hanno avviato una profonda riflessione sulle ragioni della crisi del «genere» poesia, avviando ad un tempo una riflessione sulle ragioni filosofiche della crisi. In questi anni sono cresciuti e hanno pubblicato i loro libri più importanti poeti, oltre quelli citati anche Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Roberto Bertoldo, Fabrizio Dall’Aglio, Luigi Manzi, Francesco Giuntini, Fornaretto Vieri, Sandro Montalto, per non parlare di Alfredo De Palchi, Calogero, Anna Ventura, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Emilio Villa, Giorgia Stecher, Mario Lunetta, Guido Galdini, Guido Oldani, Gino Rago, Letizia Leone, Anonimo Romano, Francesco Paolo Intini, Antonio Sagredo fino ai novissimi poeti della poetry kitchen per citare soltanto alcune personalità di spicco che, tutti insieme, potrebbero fare una esemplare Antologia della poesia italiana del tardo novecento e dell’ultimo ventennio. Chi sono costoro per gli inventori del «piccolo canone»?, sono dei non nati? dei non esistenti?, hanno almeno lo status di fantasmi?
Recentemente, Maurizio Cucchi ha dichiarato che le riviste di poesia sarebbero «irrilevanti», non fornirebbero elementi utili e significativi per l’approfondimento del dibattito critico sulla poesia. L’affermazione di Cucchi, se fosse vera, investirebbe anche le numerosissime antologie pubblicate nei decenni scorsi fino a quest’ultima pubblicata nella “collana bianca” (2024) che ospita cinque autori. L’affermazione di Cucchi non soltanto non è vera ma è vero il contrario: è l’apparato di poesie auto promozionali e di prefazioni e di recensioni amicali e redazionali di cui sono prova gli Almanacchi e le antologie piovute dal cielo ad essere irrilevanti, in quanto prive delle ragioni stesse che stanno alla base dell’atto critico: la libertà intellettuale, la competenza e la dignità intellettuale di chi le firma.
(Giorgio Linguaglossa)