22 anni di carcere per Nadezhda Rossinskaya cittadina russa di Belgorod per aver invitato in un post a donare beni di prima necessità per i civili ucraini.
Il capo d’accusa? Un post su Instagram in cui invitava a donare beni di prima necessità per i civili ucraini. Non armi, non munizioni, non codici NATO segreti, ma pannolini, cibo, antibiotici. Nella Nuova Russia (Paradiso per Di Battista e Salvini), aiutare chi è sotto le bombe gettate da Mosca equivale a “terrorismo” e “alto tradimento”.
È l’articolo 280.4 del Codice penale russo. Letteralmente: reato di empatia aggravata dalla condivisione social. Nadine faceva parte di un gruppo di volontarie chiamato “Esercito di bellezza”. Aiutavano civili, evacuavano donne e animali, facevano raccolte fondi. In un paese normale sarebbero su copertine di riviste, o candidati al Nobel per la Pace.
In Russia invece, se non indossi il passamontagna e non spari ai bambini, finisci in cella. 22 anni di galera per non aver rispettato il dress code della crudeltà putiniana. E Nadine è rimasta sola. Come Navalny.
Nadezhda ha commesso il crimine supremo: pubblicare un post. Una chiamata alla solidarietà in una lingua che il Cremlino ha completamente dimenticato. Non c’erano svastiche, né proclami ideologici. Solo una richiesta di donare per chi ha perso tutto.
Ma per l’attuale regime russo, la bontà è più pericolosa del napalm. Meglio una madre soldato che una madre soccorritrice. Meglio chi urla “Urrà!” su TikTok che chi piange in silenzio davanti a un cane ferito. Chi uccide un civile ucraino in uniforme russa? Riceve una medaglia.
Chi salva un civile ucraino da sotto le macerie? Riceve 22 anni di carcere.
La giustizia russa non è cieca: guarda con gli occhiali del KGB. E trova il nemico ovunque: in una parola, in un cuore, in un post.
E l’Occidente? Tace. L’Italia? Tace. Qualche tweet indignato, una intervista, una mozione non vincolante al Parlamento europeo. Poi tutti a guardare telemeloni.